C’era una volta il corpo: sull’importanza del contagio culturale

C’era una volta il corpo: sull’importanza del contagio culturale

Madrid
Epicentro europeo della pandemia da coronavirus

Corre l’anno 2020
E mi ritrovo che da quasi otto mesi non partecipo – il mio corpo non partecipa – alla presentazione di un libro, a un seminario di filosofia, a un cineforum, a una rassegna teatrale, a un concerto.

Ho assistito a svariati eventi su Zoom, ho letto e ascoltato musica, e a breve, probabilmente, finirò i podcast di Barbero. Il tutto, in sicurezza. Al caldo. Protetta dalle pareti di casa (la mascherina di certo più efficace) e rassicurata dalla comodità di un divano.

Eppure, inizio a percepire un vuoto sempre più grande, una mancanza che va ben oltre le limitazioni alla cosiddetta libertà personale di cui molti si lamentano (eviterò di soffermarmi sui danni che il neoliberismo sta facendo alla parola “libertà”) e che ha a che vedere con l’essenza stessa della letteratura e, più in generale, della cultura.

Come in Italia, anche in terra spagnola il mondo della cultura e la filiera del libro, entrambi fin troppo abituati a convivere con un senso permanente di crisi e precarietà, si sono prontamente reinventati e riorganizzati, cercando di sfruttare al meglio le possibilità offerte dalla rete.

Durante il confinamento, abbiamo assistito ad un proliferare di iniziative digitali: presentazioni in diretta Facebook, festival online (particolarmente riuscito, in questa nuova e speriamo momentanea veste, il Salone del Libro di Torino o, proprio in questi giorni, la Fiera del Libro di Madrid), corsi e seminari su Zoom (con una presenza fortissima e sorprendente di «donna Filosofia», a cui in molti ci siamo rivolti durante le prime settimane di pandemia). «La cultura non si ferma» è stato (ed è tutt’ora) il motto ufficiale del Ministero per i Beni e le Attività culturali, che per l’occasione ha riunito in un’unica pagina web le molteplici iniziative virtuali organizzate da musei, biblioteche, teatri, archivi, cinema e siti archeologici. E, rispetto ad altri attori culturali (si pensi, per esempio, ai settori della musica dal vivo, dello spettacolo e del teatro), il mondo del libro si è rivelato tutto sommato tra i meno sfortunati, un po’ perché può contare su una cerchia di «fedeli d’Amore» (direbbe Dante) che si sono subito attivati per sostenere l’editoria indipendente e le librerie di quartiere (chi di noi non ha subito scritto alla propria libraia di fiducia per ordinare quei tre, quattro, cinque, sei libri che da tempo desiderava?), un po’ perché, fra tutte le esperienze culturali, la lettura è forse quella che meglio si adatta a una dimensione privata, intima, solitaria.

Forse.

Meraviglioso Boccaccio

Se infatti si da per scontato che l’esperienza di un concerto rock non è certo riproducibile nel proprio salotto di casa (con tutta la sua carica virale, e il sudore, e il poga-poga, e la mancanza d’aria e di visuale se, come me, non sei proprio una stangona), non ci soffermiamo mai abbastanza su quanto anche la letteratura si alimenti del contatto fisico e del parlarsi faccia a faccia, possibilmente senza filtri.

Com’è risaputo, la letteratura – che si declinasse in mito, in racconto popolare, in poesia, in narrazione storica o in favola – affonda le proprie radici in una tradizione orale che va intesa non solo come assenza di un testo scritto, ma anche e soprattutto come presenza di corpi e di voci. Raccontare una storia significava metterla al servizio della memoria collettiva, offrirla all’altro come un’esperienza da condividere, perché solo nella condivisione trovava un senso.

Tutt’oggi, leggere o rileggere in comune – che non significa solo leggere lo stesso libro allo stesso tempo, ma abitarlo insieme, pensarlo e interrogarlo insieme, riunirsi per settimane in uno spazio fisico condividendo gli uni con gli altri interpretazioni, domande o dubbi – è un’esperienza capace di allargare i limiti di un singolo libro, di una singola lettura (nel mio caso, un paio di anni fa fu la volta del Capitale di Marx e l’anno prima dell’Ulisse di Joyce, e in entrambi i casi penso che se fossi stata da sola non sarei riuscita a portare a termine l’impresa).

Uscire indenne da una conferenza sul femminismo intersezionale o la Genealogia di Nietzsche e aver l’occasione di bere un paio di cañas con persone fino al giorno prima sconosciute (e a cui magari poter confessare che ancora non hai ben capito cosa significa «intersezionale») provoca un’ondata di curiosità intellettuale che difficilmente si riproduce quando chiudiamo Zoom e spengiamo il computer (e anche in questo caso posso seriamente affermare che, se non fosse per gli intensi dibattiti che si aprono dopo una bella lezione di letteratura, mio figlio non esisterebbe, e non perché sia stato concepito sotto l’effetto di due o tre cañas di troppo).

Up 2009

Insomma, anche la cultura, come l’attivismo e la militanza politica, ha bisogno del corpo a corpo, del contatto stretto, di neutralizzare gli anticorpi di un organismo, abbattere le sue difese e conquistarlo, scuoterlo, trasformarlo. Anche la cultura ha bisogno, per sopravvivere e riprodursi, del contagio: di propagarsi da un corpo all’altro e superare ogni frontiera, fino a diventare endemica in tutto il mondo.

Attenzione, non si tratta di difendere una posizione apocalittica, ormai del tutto desueta e sterilmente nostalgica, nei confronti del virtuale; ed effettivamente mi si potrà obiettare che nell’ultimo decennio Internet e i social network hanno dimostrato una capacità incredibile, talvolta quasi rivoluzionaria, di diffusione, mobilitazione e contagio. Verissimo.

Ma è anche vero che per diventare efficace, per produrre degli effetti concreti sul nostro mondo, tale capacità si è dovuta poi materializzare in un assembramento, in un incontro, in una corporeità di cui la letteratura – questa è la mia tesi – non può fare a meno.

Rivendicare l’importanza del corpo – anzi, dei corpi – all’interno del campo letterario significa in fondo ricordare che la letteratura, lungi dall’essere una dimensione astratta o cerebrale della vita e della società, è strettamente connessa con l’istinto forse più fisico e contagioso della nostra psiche: il desiderio inteso come libido, come Eros.

Se non vogliamo vederla snaturata, quindi, quando tutto questo sarà finito e potremo finalmente lasciarci alle spalle le giuste e necessarie precauzioni di oggi, noi amanti del libro saremo chiamati a “scendere in piazza”: a invadere i festival letterari e a stiparci nelle piccole librerie di quartiere, a lasciarci toccare dagli sconosciuti (dai loro desideri, curiosità e conoscenze), a contagiarci l’un l’altro, a vivere la cultura invece di limitarci a consumarla, a partecipare invece di assistere.

Marie Antoinette, Sofia Coppola, 2006.