08 Set Si vivesse solo di inizi: il fascino degli incipit
Si vivesse solo di inizi: il fascino degli incipit
Tsundoku appartiene a quei termini i quali, sebbene sembrino prodotti dalla mente fertile e fantasiosa dei bambini, possiedono il dono della sintesi e descrivono un concetto che, in italiano, necessiterebbe di molte parole. Ecco che allora la nostra abitudine ad accumulare libri nella speranza di una lettura futura acquista, dal Giappone, un nome intraducibile e ammaliante.
In questo termine mi ci sono sempre ritrovata e mi sono rivista quando, da bambina, compravo un numero spropositato di libri che promettevo ai miei genitori di leggere. E quando mi chiedevano perché ne comprassi così tanti in una sola volta, io rispondevo che avevo letto l’incipit e avevo capito che quei libri sarebbero dovuti venire a casa con me.
Mi bastava leggere l’incipit, perché in esso c’è tutto: il tono, il ritmo, lo stile, la “voce” e la logica della narrazione. L’incipit è un inizio. Anzi, l’inizio di una storia, di un viaggio, di una vita; è una partenza per un luogo, il momento in cui si intraprende qualcosa di nuovo, l’attimo che avvia la narrazione e che pone in essere quell’universo parallelo, che segue regole diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati.
Ci sono moltissimi modi di narrare la stessa storia, esattamente 99 secondo Raymond Queneau. E, di conseguenza, quanti modi diversi potrebbero esistere per iniziarla?
La risposta che ognuno di noi darebbe, ben lontano da una cifra precisa, sarebbe “tantissimi”. Così tanti che sembra avere poco senso definirne un canone o fornire una casistica attendibile ed esauriente. Forse è vero che alcuni incipit si somigliano tra loro, al punto che verrebbe voglia di caratterizzarli in un unico insieme: ma essi, ogni volta, ci conducono in sentieri diversi.

È bene precisare che la mia riflessione da lettrice esula da qualsiasi intento di ricerca o classificazione letteraria: lascio volentieri questo arduo compito ai grandi come Umberto Eco o Stephen King.
Il mio interesse parte invece da una sorta di insaziabile “appetito letterario” non solo per i libri, quanto per gli incipit. Tutti noi siamo affamati di libri, di storie e di favole. Ce le siamo sempre fatte raccontare, da nostra madre, da nostro padre o dalle nostre nonne, quando eravamo bambini, prima di addormentarci.
E continuano a cercarle da adulti, nei libri, a teatro, nei film, su internet. I libri ci plasmano: modellano le collettività, ma influenzano anche la nostra identità. Ma nell’era della comunicazione istantanea, dell’attenzione fulminea e della sovrabbondanza di informazioni, queste storie sembrano inevitabilmente riducibili a poche battute: basti pensare ai post su social network come Facebook o Instagram.
In un’epoca di gratificazione istantanea, brevissimi momenti di attenzione e infiniti contenuti con cui confrontarsi, l’inizio di un racconto diventa uno strumento chiave: oggi i libri si ritrovano infatti a dover competere non solo tra loro, ma anche con altre forme di intrattenimento online e offline.
È interessante notare come prima del Settecento il libro non aveva rivali e, dunque, non aveva bisogno di espedienti costruiti per attirare il lettore: l’incipit era solitamente destinato ad educatissimi inviti al lettore, dediche al mecenate di turno, invocazioni alle Muse o alle divinità, dichiarazioni di intenti, illustrazioni di cornici fantastiche o di motivazioni reali, di natura sociale o politica.
Con un lessico che mai avremmo pensato di usare per il mondo dei libri, l’offerta del mercato è aumentata con il tempo e l’incipit è diventato un mezzo necessario a catturare l’attenzione del lettore, invitandolo a fare parte di un mondo.

Tutto ciò contribuisce a delineare il carattere sfuggente (proprio perché non risultano riducibili ad una classificazione precisa) ma fondamentale degli incipit: così sfumati eppure così importanti.
Non è certo che chi ben comincia sia a metà dell’opera, ma sicuramente un buon incipit è importante anche dal punto di vista estetico. Qualsiasi inizio deve avere la funzione primaria di catturare l’attenzione del lettore per impedirli di abbandonare quel testo, quelle parole o quella musica.
Pensiamo ad esempio alla Quinta di Beethoven e al suo inizio titanico e travolgente, che risulta eternamente impresso nella memoria di ognuno di noi; di contro, l’Incompiuta di Schubert, inizia così timidamente che, se la ascoltassimo a un volume basso, forse nemmeno ci accorgeremo che è cominciata.
L’incipit segna anche il momento in cui la storia passa dalla potenza all’atto: «fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo (…) il mondo dato in blocco, senza né un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita (…). Ogni volta l’inizio è quel momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore è l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare».
L’atto di creazione dell’incipit, secondo Calvino, è un processo simbolico mediante il quale la storia stessa sceglie una tematica e prende vita. L’incipit segna quindi la nascita di una storia, un processo che viene sancito da una tacita promessa tra scrittore e lettore.
E le promesse, si sa, devono essere mantenute: l’imprescindibile patto creato all’inizio del libro, inerente sia alla narrazione del contesto che allo stile dell’autore, non deve essere deluso dalle pagine che seguono.
Le persone si avvicinano ai libri alla ricerca di qualcosa. Ma non vengono attratte solo dalla storia o dai personaggi. Probabilmente non vengono neanche tentate solamente dal genere. Penso che i lettori vengano sedotti dall’incipit, quella voce e quell’invito che sembra apparentemente impossibile declinare.
È come imbattersi per strada in qualcuno che afferma di poterti offrire divertimento e, forse, anche una nuova visione del mondo. Dopotutto, è per questo che leggiamo.
«Si vivesse solo di inizi
di eccitazioni da prima volta
quando tutto ti sorprende e
nulla ti appartiene ancora.
Penseresti all’odore di un libro nuovo…».
